L’immagine è un fardello
2 Luglio 2008
L’immagine è un fardello
di Giacomo T.
La civiltà dell’immagine apre fin dai suoi esordi ad una vasta gamma di problematiche e aspetti proprio a partire dall’inserimento del concetto immagine in un apparato socio-culturale come quello di civiltà. La civiltà dell’immagine, inoltre, si propone come un diretto proseguo delle premesse dell’“era Gutenberg”, vale a dire di quella cultura scritta ed astratta che di certo permane ancora nella civiltà attuale ma che con l’implementazione dell’immagine ha modificato i suoi caratteri a favore di una sintesi che rifletta maggiormente il nostro tempo. Siamo quindi in immagine, questo fardello che per parte ci pesa e che per parte altra no, ma che ci dà la possibilità di confrontarci e relazionarci con molte delle manifestazioni del contemporaneo, quelle molteplici forme di cui innanzi tutto l’uomo ne è per buona parte artefice e, quando no, ne prende parte con estrema disinvoltura, o, in taluni casi, con estrema indifferenza. L’immagine è di fatto un aspetto che ha riscosso notevole successo in molti campi della cultura e della tecnica, al punto tale che, per molte considerazioni ed ambiti di analisi, se né dovuta riformulare continuamente l’attenzione e la specificità mettendo spesso in crisi molte delle basi ideologiche del “voler sapere”. In particolar modo, nella misura in cui l’onnipotenza della razionalità astratta ha iniziato a cedere, nel mondo scientifico é cresciuta la stima per aspetti psicologici e sociologici, come a tentar di recuperare quello scarto di occasionalità e casualità in cui l’uomo è naturalmente avvolto e che sfere come la fisica, la chimica e l’astronomia, ad esempio, avevano spesso tralasciato o tendenzialmente oscurato per “l’amor di Dio”.
La nascita e lo sviluppo della psicoanalisi è tra gli esempi di questo presentimento, della consapevolezza di questi mutamenti, che incisero tutto il senso di civiltà ereditato e che mai più percossero i passi fatti, sintomo genetico di un epocale cambiamento. Ma, ripetiamolo, la psicologia e la sociologia e le espressioni umanistiche in generale – tra cui l’arte -, hanno, nel nostro specifico, rimesso l’immagine al centro delle riflessioni e delle domande sull’uomo, l’uomo nel suo “attorno”. Lo studio delle società non europee, soprattutto durante tutto il XIX secolo, ha costretto a rivedere certi pregiudizi culturali in materia di immagine, sul filo dello studio comparato delle arti plastiche, delle credenze religiose, del mito; gli studi cognitivi e psicologici hanno rivalutato l’esperienza come fattore determinante il vissuto, la visione del vissuto, riposizionando l’uomo all’interno della società e della natura come ulteriore elettrone scatenante e non più come centro da cui tutto l’universo si ritrae, ed è ritratto. La valenza dell’immagine acquisisce maggiore consenso a causa proprio della sua forte ambiguità, dalla sua carica depistante situata a metà strada tra il concreto e l’astratto, tra il reale e il pensato, tra il sensibile e l’intelligibile. Essa consente di riprodurre e interiorizzare il mondo, di rispecchiarlo così com’è, a livello mentale o in virtù di un supporto materiale, ma anche di modificarlo, di trasformarlo, fino a produrre mondi fittizi. Tra il dato puro dell’immediatezza sensibile e il suo concetto, l’immagine costituisce, quindi, una rappresentazione intermedia, che collabora tanto alla conoscenza del reale quanto alla sua piena dissoluzione nell’irreale. Non a caso, l’immagine, se pur ha riconquistato l’interesse di moltissimi studiosi, non gode, generalmente, di una buona reputazione, particolarmente se pensiamo ai filosofi, che hanno prevalentemente rivolto la propria attenzione alle percezioni e ai concetti. Ne è esempio una asserzione di M. Merleau-Ponty che ammette come «la parola immagine ha una cattiva fama perché si è creduto che un disegno fosse un ricalco, una copia, una seconda cosa, e che l’immagine mentale fosse un disegno di questo genere nel nostro privato»; oppure, allo stesso modo, ma con una netta presa di distanza, come rileva F. Dagognet, osservando che «il filosofo non apprezza di sua spontanea iniziativa né i fantasmi, né le copie, né i riflessi, né gli abbagli, né i miraggi: la sua saggezza e il suo buon senso lo mettono in guardia contro tutto ciò che è replica, mimetismo, mistificazione». Eppure la filosofia, alla pari della scienza, della psicologia e della sociologia, ha dovuto riconsiderare l’immagine e attualizzare i suoi confini, la sua veste perturbatrice o comunque mediatrice dell’attività dello spirito, obbligata a rivalutarla riesaminando certi suoi atteggiamenti conservatori, aggiornando certi suoi concetti e giudizi. È da qui che si concentreranno gli ultimi sforzi critici a favore dell’immagine. L’immagine è un fardello (ci piace questo termine perché ne abbozza la sua struttura organica, variamente articolata, composta di parti, di organi appunto, di ossa, di articolazioni, di flussi e di respiri; l’immagine non definisce mai la sua vera presenza; un corpo senza forma o dalle infinite forme, sformato, informale, ma comunque un corpo sempre formativo, che informa, che consuma e produce informazioni, che dall’informazione dipende, ne subisce il fascino, la promuove, se ne fa carico, ci precipita dentro, si stressa ed urla), un fardello onnipresente con cui conviviamo e che alimentiamo volutamente, volutamente che non significa coscientemente. È una volontà nascosta, per parte repressa e guidata dall’alto, o dal basso, da ogni direzione; una volontà che si tramuta in interesse quando riusciamo a scorgerne le sue potenzialità ludiche, legate al gioco, mai troppo impegnative. È quindi un interesse disinteressato, così come propone Mario Perniola[1] - e noi lo appoggiamo -, «un interesse disinteressato che non sfugge il mondo ma lo muove».
Un saluto agli amici di Clear Nuance. Giacomo T.
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[1]M. Perniola, Contro la comunicazione, Einaudi, Torino 2004, in copertina.
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