Dell’Invidia passando per Ovidio
Io sono Aglauro che divenni sasso
(Dante Pg. XIV, 139)
A Cicerone si deve la più chiara spiegazione della etimologia di invidia, che, com’è noto, va ricondotta al potere stesso dello sguardo: quod verbum ductum est a nimis intuendo fortunam alterius, ut est in Melanippo: “Quisnam florem liberum invidit meum?”. Sempre Cicerone si premurò di sopperire alla egestas linguistica latina, coniando il neologismo invidentia che distinguesse l’invidia ‘attiva’, che il soggetto prova, da quella passiva, di cui si è oggetto, per eliminare l’ambiguitas di questa vox media. Il lessema non si impose, tuttavia ne troviamo traccia in qualche scrittore cristiano.
Ma è ad Ovidio che si deve la prima e più compiuta descrizione della personificazione dell’invidia; essa si trova, notoriamente, nel II libro delle Metamorfosi, ai vv. 760-801. Il contesto dell’azione di Invidia è costituito da un episodio che vede come protagonista Aglauro (“Splendida”), una delle tre figlie del re Ateniese Cecrope, per la quale il poeta ritaglia un ruolo a metà strada tra vittima (della dea Invidia) e maldestra ‘carnefice’ (della sorella Erse). Aglauro diviene così invidiosa di Erse e ostile a Mercurio, fino a impedirgli l’accesso alla stanza della sorella. Il dio, dopo aver tentato invano di vincere l’opposizione della donna, la punisce pietrificandola.
Ai fini della comprensione della rappresentazione dell’invidia nell’immaginario ovidiano (e romano in genere), può risultare di qualche utilità un’analisi della sua personificazione in rapporto alle dinamiche.
L’invidia, infatti, è sempre un sentimento di relazione e in relazione a qualcun altro da sé. Il primo dato rilevabile è che Ovidio stabilisce una sorta di rapporto osmotico fra ‘contenente’ e ‘contenuto’, nel senso che per la rappresentazione dell’Invidia il poeta non può che mutuare i caratteri psico-somatici da quelli che nell’immaginario comune del suo tempo dovevano essere attribuiti alla persona affetta da invidia e che poi si riscontreranno parzialmente, in due momenti diversi, nella figlia di Cecrope.
Un secondo aspetto, che emerge è che Aglauro costituisce già di per sé un buon ricettacolo per l’invidia, anzi si può dire che vi abbia una certa predisposizione e inclinazione naturale. Questo è un tratto che marca differenza con una forza per certi versi speculare all’invidia, cioé l’amore. Infatti, anche l’amore è topicamente originato e alimentato dagli occhi, ma la sua forza è tale da costringere anche i più riottosi a piegarsi e a caderne vittima. Anzi, in genere, proprio i personaggi mitici che si professano ‘irriducibili’ nella loro insensibilità ai richiami erotici, non fanno che attirare su di sé la malevolenza di Venere che, in una sorta di contrappasso punitivo, li coinvolge in passioni violente, spesso fatali.
La descrizione ovidiana indulge sullo stato di sofferenza personale che l’invidioso attraversa: Aglauro è morsa da un dolore occulto, e per questo più atroce, nascosto nelle pieghe profonde dell’animo, come nascosta era, allegoricamente, la casa di Invidia. Senza soluzione di continuità il morso la attanaglia, di giorno come di notte. Per rendere lo stillicidio Ovidio sceglie l’immagine del ghiaccio che si scioglie a poco a poco sotto un sole tiepido, e, rovesciando la prospettiva, della legna verde che il fuoco non riesce a far divampare, ma pure consuma con lentezza.
Infine un cenno alla respirazione, anzi al soffocamento procurato dal diffondersi del gelo, che avanza come un cancro incurabile, occulto, nascosto (come segreta e incurabile era l’erosione stillicida del livore dentro il cuore di Aglauro). Et respiramina clausit: il senso di soffocamento è un altro tratto caratterizzante l’invidioso, alla vista della felicità altrui. In diverse testimonianze letterarie la persona invidiosa aspira proprio a una morte per soffocamento, tramite strangolamento o impiccagione. Ed è grazie al raffronto fra le fonti letterarie e quelle archeologiche che M. W. Dickie e K. Dunbabin hanno sciolto l’enigma di alcune statuette acefale di Smirne, in parte esposte oggi al Louvre, caratterizzate da una magrezza esasperata, le costole in evidenza, un fallo molto pronunciato e le mani portate al collo.
L’ultimo verso è una nota ‘di colore’. Se il colorito dell’invidioso è pallido e livido, la pietra in cui è stata trasformata Aglauro non può risultare bianca perché la mente di Aglauro è ormai così corrotta da contaminare da sé il resto, per intero. Nel suo masochismo senza limiti, l’invidioso ha firmato, ancora una volta, la propria condanna.
L’icastica descrizione della pietrificazione deve aver colpito particolarmente anche l’immaginario di Dante Alighieri, se il poeta la trasceglie come ‘epigrafe’ per immortalare la figlia di Cecrope che gli si fa innanzi nel cerchio degli invidiosi: «Io sono Aglauro che divenni sasso».
Con ogni probabilità, proprio a causa del carattere di autolesionismo peculiare di questo peccato, che è scevro di qualsiasi vero piacere, Dante colloca gli invidiosi nel Purgatorio (Pg. XIII-XIV) e non nell’Inferno.
Anche l’inserimento nella lista dei sette peccati capitali non è stata sempre scontata: Evagrio e Cassiano infatti non la considerano tale, mentre è Gregorio Magno a classificarla per primo come secondo vizio capitale, dopo la superbia. Cfr. C. CASAGRANDE - S. VECCHIO, I sette vizi capitali, Torino 2000, pp. 36-53
Oggi l’ostracismo e la condanna sociale nei confronti dell’invidia sono così unanimi, almeno a parole, da rendere spesso necessario il suo occultamento. L’accusa di invidia viene respinta, anche di fronte all’evidenza, o comunque il vizio viene nobilitato e adulterato con altri pretesti. Resta spesso più facile confessare di avere ben altri vizi e difetti piuttosto che questo. Le cause e l’entità di tale reticenza variano in base alle culture e ai periodi storici di riferimento. Vi sono culture che non contemplano neanche un vocabolo traducibile con “invidia”.
Sulla rimozione linguistica dell’invidia, e in generale su invidia e linguaggio, cfr. quanto osserva H. SCHOECK, L’invidia e la società, pp. 16-24 e 29-31.
Per chi ama i proverbi:
Un antico proverbio russo recita: L’occhio dell’invidioso fa di una mosca un elefante e L’invidioso vede anche con le orecchie. Espressioni proverbiali consimili, che persistono in varie lingue del mondo, sono citate in H. SCHOECK, op. cit., pp. 25-29.
Per i proverbi greci e latini sull’invidia si veda A. OTTO, Die Sprichwörter und Sprichwörtlichen Redensarten der Römer, r. a. Hildesheim 1962, in particolare s.v. fulmen, invidia, rumpere, dens e R. TOSI, Dizionario delle sentenze latine e greche, Milano 1991, pp. 31; 284-285; 618.
Ciao a tutti. Valentina C.
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